Europa, il sogno dissipato

di FLAVIO FUSI

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“Può durare altri cento anni”, sibila Erich Honecker ai giornalisti che accompagnano Michail Gorbaciòv. Il 7 ottobre 1989 a Berlino Est pioviggina, sul palco d’onore della sfilata lungo Unter den linden Gorby indossa il solito borsalino grigio, il burosauro tedesco è infagottato in un cappottone grigio antracite. Mai profezia fu più azzardata: basterà attendere esattamente trentadue giorni, e il muro “che può durare altri cento anni” andrà in polvere insieme a tutta la parafernalia della Germania comunista: il Politburo e le Trabant, la Stasi e le belle uniformi, la solidarietà internazionalista e le spie che vengono dal freddo.

In quei giorni indimenticabili di tragedia storica e di festa mobile, ai perduti e ritrovati fratelli dell’Est l’Occidente magnanimo spalanca le braccia e apre gli sportelli delle banche: ogni saltatore del muro che si aggira incredulo e abbagliato tra le sfolgoranti luci capitalistiche avrà cento marchi tedeschi con cui comprare un paio di jeans, una maglietta, una camicia alla moda, forse addirittura gli stivaletti di cuoio che indossano Starski e Hutch nei fantasmatici e peccaminosi telefilm americani.

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Michail Gorbaciov

Sotto quel muro picconato da migliaia di scalpellatori, sotto quella pioggia battente o quel sole pallido di novembre lungo gli immoti canali della Sprea, se ne andarono i primi trenta anni della nostra vita, mentre la storia, la storia vissuta, si imbizzarriva e scartava come un cavallo ombroso di fronte all’ostacolo. Eravamo testimoni di un rovesciamento epocale. Contrordine, compagni: il “grande principio ordinatore” della vicenda umana non era più - come tutti avevamo creduto – il conflitto senza quartiere tra socialismo reale e capitalismo maturo, ma la moneta “todopoderosa” e trionfante del versante occidentale.

Per l’incoronazione ufficiale si dovette attendere non più di un decennio, quando il Marco decise una inedita trasfigurazione e si convertì nell’Euro: moneta franca della nuova, sfavillante e ambiziosa Europa unita dei popoli e delle nazioni. Come ci piacque quella mutazione, oggi non saprei ricordare. Forse nemmeno ci piacque, ma era nell’ordine delle “nuove cose”, una necessità fisiologica del tempo nuovo. Rammento soltanto che non fu doloroso né nostalgico l’addio alla liretta nazionale, inflazionata, oberata da un debito insopportabile, cenciosa e affollata di inutili zeri.

Fu quella la grande festa dell’ Europa, la nuova Atene, culla di democrazia ritrovata. Che spreco di retorica! Le capitali dell’Occidente si vestirono di luci, i fratelli dell’Est ex-sovietico fecero a gara per un posto in prima fila e dignitosamente si sistemarono negli ultimi posti in curva. In silenzio, l’America colse i frutti dello sfondamento ad Est, e ci dicemmo che finalmente l’Europa – la nostra Europa – poteva combattere ad armi pari nel grande risiko della geopolitica, mentre il dollaro aveva trovato nell’euro un degno rivale.

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Il Muro di Berlino

Quel sogno è stato in gran parte dissipato. La frontiera europea di oggi – guardiamola – è quel bosco gelato ai confini tra Polonia e Bielorussia, dove marcia un gregge disperato di prede umane, incalzato e cacciato, spinto contro barriere di filo spinato, bastonato e affamato. La frontiera europea sta nelle acque della Manica, dove si aggirano nella notte i fantasmi di quelli che non ce l’hanno fatta, affogati in vista di un sogno, nel breve tratto di mare che divide due Paesi che furono nella storia maestri di rivoluzioni e costruttori di democrazia.

La frontiera sta nei venticinque-ventisei-ventisette-ventotto governi diversi e sospettosi l’uno dell’altro, in partiti rissosi, in classi dirigenti mediocri e pavide, in parlamenti che non hanno vergogna nel chiedere denaro europeo per costruire nuovi muri e nuove barriere contro le “invasioni barbariche” del nuovo secolo. Quanto a noi, eccoci qui. Nella grande bonaccia dell’euro, sotto le vele sgonfie di un’ Europa ridotta a banche, comitati di affari, antichi confini e nuovissime barriere, ho consumato – abbiamo consumato – i nostri cinquanta e sessanta anni.

Scrivo queste righe “là dove il mare finisce e la terra attende”, davanti a un oceano che ribolle azzurro e cupo lungo i contrafforti tormentati di antichissime lave. Lanzarote e il suo arcipelago emersero milioni di anni fa dalle profondità, e il panorama di fronte a noi è lo stesso primordiale di allora, ricomposto e spaccato e di nuovo ricomposto da eruzioni successive, fino all’immobile pace di oggi: una singolare assenza di tempo in un paesaggio massimamente modellato dal tempo. In queste parti estreme del pianeta l’uomo sopravvive, vive e si guadagna la giornata come un parassita operoso, scavando ripari per piante e frutta dentro un nero letto di lapilli, estraendo goccia a goccia l’umidità necessaria alla vita da una terra desolata, spazzata dai venti africani e mai benedetta dalla pioggia.

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L’ultimo santo protettore di quest’isola fu un uomo in carne ed ossa vissuto fino agli ultimi anni del secolo scorso: Cèsar Manrique, singolare figura di intellettuale e viveur, architetto e ceramista, pittore e scultore, raffinato affabulatore e contadino, combattente ecologico in anni in cui la parola ecologia nemmeno appariva nei vocabolari. In trenta infaticabili anni Manrique convinse la comunità isolana e i suoi governanti a nutrire e costruire un sogno, e in trenta anno modellò questo impervio accidente della preistoria, questa inospitale zattera di pietra, fino a farne un esempio di sostenibilità e di bellezza, una viva opera d’arte conosciuta dal mondo intero e percorsa ogni anno da centinaia di migliaia di visitatori.

A proposito dunque di velocità, di quella velocità senza freni a cui appare condannato il piccolo pianeta di noi privilegiati. E’ il “momento de parar”, il momento di fermarsi, scrive Manrique nel lontano 1985: “ascoltiamo di continuo vani atti di discolpa, applichiamo leggi vecchie e senza significato, ripetiamo errori che sembra impossibile correggere. Questa di non poter fermarsi è una impostura e una condanna a vita. Tutto - al contrario - si può correggere, tutto si può cambiare: dipende dall’entusiasmo, dalla verità che sentiamo in noi stessi, da decisioni finalmente onorate e coraggiose.”

Chi mai oggi potrebbe sottoscrivere questo manifesto della lentezza e della necessità di fermarsi, in questo inizio d’anno occidentale in compagnia del virus, quando guardiamo al mostro che sibila minaccioso alle nostre spalle, mentre a milioni ci ritroviamo a sciamare lungo i ben forniti scaffali dei supermercati.

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Lanzarote

Il discorso di oggi cerca di mettere insieme la velocità della crescita senza fine con gli imperativi della lotta alla pandemia, in una corsa che non ammette pause, né stazioni intermedie. Come la locomotiva di Guccini, il meccanismo che tutti ci contiene si avventa a folle velocità verso i prossimi anni, e ogni colpo di freno può significare un rovinoso deragliamento. Certo è questo l’orizzonte, se il nostro mondo altro non è che “un immane accumulo di merci”, se tutte le nostre aspettative sono contenute in un dato di crescita, uno zero virgola, una curva che sale dentro un diagramma.

Nel piccolo pianeta primordiale di Lanzarote, l’indisciplinato Cèsar Manrique seppe costruire un futuro sostenibile all’insegna della bellezza. Certo, un sogno che non funziona su scala più grande: comunità complesse, nazioni e continenti, e milioni di cittadini-clienti, ognuno dei quali vuole – giustamente e fortemente – vivere e sopravvivere, e possibilmente ben vivere. Questa è dunque la regola necessitata del pianeta e dei suoi abitanti. Ma è anche vero che in ogni secolo solo gli irregolari e gli indisciplinati, i pazzi e i traditori della norma generale hanno saputo esprimere inascoltate e scandalose verità.

Ogni grande principio ordinatore ha i suoi pazzi da legare. Nel Novecento che ci sta alle spalle, quando il grande principio ordinatore era il Partito e poi lo Stato - e infine il Partito-Stato – fu Victor Serge, un altro pazzo geniale in fuga disperata da Est ad Ovest, ad avvertire invano i suoi baldanzosi compagni di viaggio: “camminiamo nell’errore come dentro una tempesta di neve.”



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