L'Europa c'è già da secoli, e mille lingue sono una ricchezza

di FABRIZIO FUNTÒ

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Si narra che Zeus si fosse innamorato di Europa, la bellissima figlia del re fenicio Agenore. Per riuscire a concupirla senza farsi scoprire si trasformò in un toro e, giunto con la mandria vicino alla principessa di Tiro, si distese ai suoi piedi. Europa, stupita di tanta mansuetudine, volle salirgli in groppa e questo fu il suo errore. Il toro prese a correre per i lidi fenici, si gettò in mare e raggiunse l’isola di Creta, dove le si rivelò per il padre degli dei, e la prese con la forza contro la sua volontà, lasciandola tremante e sconvolta.

Tutti cercarono Europa: sua madre Telefassa, i suoi fratelli ― fra i quali il più alacre fu Cadmo ― e altri nobili famigli, ma senza trovarla mai più. Quel primo rapimento riempì di uomini, e di stirpi regali, tutte le coste del Mediterraneo quando i cercatori, esausti dal viaggio o consigliati da un dio, si fermarono e si radicarono nelle terre inesplorate raggiunte.

Questa è l’Europa nel mito.

E i miti, come si sa, parlano della realtà molto meglio di mille parole e di mille ragionamenti.

L’Europa esiste oramai da secoli, da quel primo rapimento che ci ha resi tutti fratelli.

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Leonardo Da Vinci

Dopo Alessandro Magno, il Principe Augusto riuscì ad unificare tutte le terre allora conosciute sotto un singolo imperio. Ma soprattutto sotto una singola lingua, la cui eredità permea ancora oggi tutte le lingue europee.

Il linguista e filosofo Tullio De Mauro era solito dire che, se proprio volessimo adottare un esperanto come lingua comune europea, dovremmo allora usare il latino. Infatti, la presenza dei suoi termini in tutte le lingue del continente è copiosa, superiore a quella di termini appartenenti a qualsiasi altra lingua locale.

E la lingua è identità.

Quando paragoniamo l’Unione Europea agli Stati Uniti d’America, al di là delle forme statuali, il fattore fondamentale è la lingua. Non a caso il Dio di Giacobbe, quando volle punire l’arroganza degli uomini che, presi in un delirio molto simile a quella attuale, cercarono di scalare il Cielo costruendo la torre di Babele, li scimunì dapprima rendendoli intontiti, poi li dotò di lingue differenti. Gli arroganti non si capirono più, non ci si raccapezzarono e iniziarono subito a litigare fra loro.

Questa Babele sembra esistere ancora a Bruxelles. Ma è solo un nostro ennesimo errore.

L’Europa della Cultura, dicevamo, esiste da secoli. Ma noi non ce ne rendiamo apparentemente conto.

Le differenze di lingua vengono vissute come differenze di popoli, come pretesti di un patriottismo miope e cafone, sciovinista, che esalta le miserie locali e deprime le potenzialità comuni.

È questa mancanza di cultura più ampia e universale, di autocoscienza, che genera i peggiori errori oggi presenti nell’Unione.

E il peggiore di tutti è la smania di uniformare, di rendere tutto uguale senza criterio, soprattutto ciò che fa comodo a qualcuno unificare, lasciando colpevolmente separato ciò che è scomodo portare a compimento dell’Unione.

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Basta rifletterci sopra, per capire come stanno le cose.

La cultura dell’Europa è assolutamente unitaria in tutte le sue sfaccettature e diversità.

Il diritto romano sta a fondamento di tutti i sistemi statuali e legislativi della galassia europea. Non puoi edificare uno Stato, in qualsiasi parte del mondo, senza far ricorso al corpus legislativo dei nostri padri latini.

La letteratura europea è un tutt’uno, e i nostri scrittori, dai primi trovatori ai romanzieri, considerano gli altri scrittori europei parte integrante ed inscindibile della propria cultura. Tolstoj non è meno essenziale di Cervantes, Shakespeare non lo è meno di Machiavelli. Perfino il più grande scrittore argentino, e forse uno dei maggiori di tutta la storia della letteratura, J. L. Borges, non poteva non considerarsi almeno per metà europeo.

L’elaborazione filosofica ha nell’Europa la sua culla e il suo ginnasio. Non perdo neanche tempo a spiegarlo.

Per non parlare dell’arte, le cui contaminazioni hanno attraversato in lungo e in largo le pianure del Vecchio Continente. Rimasi sorpreso (ma non troppo) quando, elaborando un progetto per Venezia, mi resi conto che l’unicità della città lagunare ― per oltre mille anni retta dalla stessa forma oligarchica di governo ma al contempo indipendente da tutte le altre monarchie e signorie ― consentì a tutti i geniali talenti europei di avere una casa comune. Subito dopo l’invenzione della stampa, infatti, mentre i regimi dispotici ne frenavano la diffusione mettendo sottochiave le prime tipografie e limitandone il numero a due o tre per regno, a Venezia ne fiorirono in pochi anni più di 200.

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Wolfgang Amadeus Mozart

Tutti i libri, i trattati, le scienze, venivano stampati quindi a Venezia. Per non incappare in censure. Anche Galileo Galilei si dovette rifugiare a Venezia per lasciare traccia del suo genio ai posteri.

Così, dando corpo nelle mie fantasticherie indebite ed empie, ho immaginato che in una locanda ai bordi del Canal Grande Leonardo da Vinci, al seguito del grandissimo matematico Luca Pacioli ― il vero fondatore della contabilità tanto cara ai banchieri d’Europa ― di cui stava illustrando i complicati manuali, si sia imbattuto in un certo Albrecht Dürer, intorno all’anno 1501 o 2. E che, amenamente conversando con quello sconosciuto, i due abbiano scarabocchiato sui fogli da tipografia alcune caricature di avventori. Si, quelle famose, di entrambi, simili come due gocce d’acqua, che avrete sicuramente visto. Per la storia dell’arte, i due geni non si sono mai incontrati e mai si rivolsero la parola. Ma, secondo me, si conobbero bene, eccome, e riuscirono a parlare di arte, di incisione, di pittura, di invenzioni.

Vogliamo parlare poi della musica?

Haendel insediato in Inghilterra dovrebbe forse appartenere ad una cultura musicale diversa da quella di un Bach, il più grande di tutti, rimasto in patria ma ucciso dallo stesso chirurgo ottico che aveva ucciso anni prima Haendel? Forse che Mozart non sia sceso in Italia ad apprendere la modulazione del canto e le partiture del Prete rosso veneziano? Gluck non fa parte della stessa cultura di cui si sono alimentati centinaia e centinaia di musicisti che hanno riempito di note l’Europa per secoli?

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Albrecht Dürer

Vogliamo parlare dell’architettura, e del suo ruolo nel definire gli spazi umani a contrasto della natura, l’architettura che crea il mondo delle forme sullo sfondo dell’informe, dando un senso al vivere e all’abitare umano? O della scienza?

Volenti, o molto più nolenti, noi europei costituiamo una unica entità culturale, solida, matura, strutturata e vitale. Le differenze di lingua ― se fossimo saggi ― dovrebbero costituire un nostro lusso, non una nostra difficoltà.

Probabilmente abbiamo commesso un ultimo grave e madornale errore, in omaggio al dio infoiato che un tempo rapì la principessa da Tiro, per possederla e farla sua.

L’Unione Europea va costruita da chi l’Europa ce l’ha nel sangue e nel DNA, da chi ce l’ha nella propria cultura e nel proprio cuore l’ha compresa come tale. Da chi ha una coscienza vivida e presente di questa appartenenza. Purtroppo, dopo un sonnolento avvio a partire dal Patto di Roma (che ha la mia veneranda età, siglato nel 1957) l’Unione Europea è stata ancora una volta rapita da coloro che manovravano l’economia e la finanza. E che mal comprendono, o non comprendono, tutto il resto della cultura

Purtroppo, la cultura della finanza è la concorrenza, non la coscienza, e non certamente solidarietà. È fatale che, mettendo attorno ad un tavolo solo coloro che si occupano di tassi monetari e di scambi finanziari, di regole e ordinamenti, ciascuno poi tiri l’acqua al proprio mulino, perdendo lo scopo generale.

Gli uomini che appartengono alla cultura della globalizzazione ― oggi lo sappiamo a nostro danno ― nulla hanno a che fare con la cultura europea, localizzata, ricca di tradizioni, carica di differenze tutte positive e carica di conoscenze, arti, mestieri, esperienze e talenti come non vi sono in nessun’altra parte del mondo.

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Quelle differenze non vanno piallate ed uniformate in basso, come una volta veniva imputato alle intenzioni egualitarie del comunismo, non vanno disperse in arzigogolate e bizantine regole procedurali asettiche e falsamente neutre, ma andrebbero invece esaltate e trasformate in valori assoluti, competitivi ma non contrastivi fra loro, bensì additivi.

Un amico statunitense mi diceva, piacevolmente sorpreso, che volando per l’Europa si era reso conto che ogni 20 minuti sorvolava un Paese con una lingua, tradizioni, usi e costumi diversi. In Usa voli per ore ed è sempre la stessa pappa. Gli ho risposto che allora noi italiani siamo, in questo senso, il paese più europeo di tutti, perché viaggiando in auto, non in aereo, ogni venti minuti ti imbatti in un paese che ha un suo dialetto che spesso costituisce una vera e propria lingua, una sua arte culinaria, una sua tradizione e sue specifiche usanze singolarissime. Tutte buone.

Queste culture andrebbero alimentate e fatte fiorire, andrebbero proposte e disseminate in tutto il mondo come ricchezza dell’Europa.

Mentre dovremmo unificare un senso di appartenenza e un’etica comuni, da cui far discendere un governo centrale, una politica economica e bancaria tese alla valorizzazione delle specificità del territorio e non della indifferente finanza speculativa, una difesa comune dei luoghi, una politica estera unitaria autorevole, in grado di far fiorire l’Europa tutta e di proporre agli altri continenti una visione del mondo tesa a trasformare il pianeta in un posto ideale dove vivere per la specie umana.

Altrimenti: Europa addio!

Come tanti Cadmo saremo costretti anche noi a muovere alla ricerca della principessa perduta, affrontando draghi, dai cui denti gettati dietro alle nostre spalle far nascere i prossimi cittadini europei, finalmente coscienti e orgogliosi di essere semidei.



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