QUANDO DAI BANCOMAT USCIRONO GLI EURO

Vent'anni dalla moneta unica

di GAD LERNER

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Certo che me lo ricordo, il primo bancomat con l’euro, sotto le logge ad arco di una splendida piazza triangolare toscana, recante un nome importante: Giacomo Matteotti. Era la mattina di capodanno e faceva freddo a Greve in Chianti. Digitai solennemente il mio codice segreto sotto gli sguardi emozionati di mia (non ancora) moglie, cinque bambini imbacuccati (ci eravamo portati avanti) e la bassotta a pelo ruvido Jo.

Le banconote furono esaminate con stupore una ad una. Ciascuno dei figli ne intascò una da dieci euro illudendosi che si trattasse di una bella sommetta, oltre che dell’inizio di una nuova epoca. Erano molto più belle di quelle del Monopoli con cui avevamo tirato mezzanotte la sera prima. Dal centro della piazza ci osservava benevola la statua dell’esploratore Giovanni Verrazzano, lì nato cinque secoli prima e destinato a traversare l’Atlantico puntando la prua verso Nord, sì da scoprire la baia di Hudson, ignaro del fatto che sarebbe diventata New York. Di buon auspicio per la nostra famiglia di viaggiatori.

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Ci avevo messo un sacco di tempo a diventare italiano, vincendo l’ottusa burocrazia che per una trentina d’anni mi aveva relegato fra gli apolidi. Trovavo già assai rassicurante che sul mio passaporto fosse impressa la scritta Unione Europea. Ero felice di vivere quel passaggio storico e nessuno degli intralci successivi a quel processo di unificazione - che la moneta unica ci faceva sperare irrevocabile - ha provocato in me ripensamenti.

Ora volevo diventare definitivamente europeo, consapevole della fatica che ci era costato quel traguardo. Come dimenticarla? Ricordavo le infuocate trasmissioni televisive di Pinocchio, su Rai1, in cui vari esponenti della destra - Tremonti in testa - si erano scatenati in opposizione al Contributo straordinario per l’Europa varato dal governo Prodi sei anni prima, il 30 dicembre 1996, scegliendo di dargli un nome inequivocabile: eurotassa. E promettendo che sarebbe stato risarcito, ciò che avvenne per il 60% nel 1999.

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Così come ricordavo le esitazioni che precedettero l’effettiva entrata in vigore del Trattato di Schengen, cioè la libera circolazione dei cittadini europei senza più controlli alle frontiere degli Stati membri. Ci avevano messo undici anni, dal 1985 al 1996, a renderlo operativo. L’Italia vi aderì solo l’anno successivo. Fu davvero una liberazione per chi, come me, in gioventù, per passare da un paese all’altro, aveva dovuto piatire la concessione di visti temporanei compilando un’infinità di moduli nelle anticamere dei consolati.

Al governo, nel 2002, era tornato Berlusconi. Fece buon viso a cattivo gioco distribuendo nelle edicole un rettangolino azzurro che somigliava a una calcolatrice, facente funzioni di convertitore lira-euro. In assenza di controlli, i commercianti fiutarono la convenienza di fare cifra tonda e le merci al dettaglio ne uscirono tutte rincarate. Succedeva solo in Italia, per la gioia di chi aveva deciso di cavalcare il malumore popolare. Confidavano sull’assenza di una controprova: cosa ne sarebbe stato della nostra economia se la liretta non fosse andata in pensione insieme ai marchi, ai franchi, ai pesos e ai fiorini?

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Così, lungo questi vent’anni, avremmo dovuto fare i conti con finti nostalgici che andavano in giro a fare propaganda appuntandosi finte banconote da mille lire sul bavero della giacca nel mentre intascavano laute indennità parlamentari in euro. Nel 2014 Salvini andò a fare quella minacciosa sceneggiata sotto casa Prodi, a Bologna. Ora lo stesso Salvini è entrato a far parte del governo presieduto dall’ex governatore della Banca Centrale Europea. Così va il mondo. In tempo di Pnrr gli euro non puzzano più.

Ai nostri figli tocca vivere tempi complicati, ma tornare a contare i soldi secondo un metro diverso dai loro coetanei francesi, tedeschi o spagnoli riuscirebbe loro inconcepibile. Sarebbe un tragico passo indietro della storia. Mi piace pensare che quel primo bancomat alla banca di Greve in Chianti non resti altro che un vago ricordo.

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