8 MAGGIO 2023


LA MEMORIA NELLE MANI
GLI ULTIMI CARBONAI

di GABRIELLA DI LELLIO



(Introduzione del fuoco in una carbonaia attraverso la fessura - foto di Luciano D'Angelo)

Le manualità diffuse nella prima metà del ‘900 sono rimaste nella memoria dei più anziani; mestieri dimenticati che raccontano le radici e la storia della nostra realtà. Quelli più remunerativi e professionali si svolgevano nelle botteghe dei centri abitati (fabbri, bottai, orefici, sarti, calzolai) e gli altri, i più faticosi, in montagna. Le zone appenniniche e sub alpine, seppur nelle differenze, si riconoscono in un unicum antropologico e economico che racconta storie di umiltà. Da sempre rifugio di pastori, boscaioli e carbonai, le comunità che vivono questi luoghi esprimono un legame vitale con il territorio. Alcune regioni italiane in particolare (Trentino, Friuli, Romagna, Toscana, Abruzzo, Calabria, Basilicata) erano specializzate nell’arte del carbone.


(cumulo di legna - foto Luciano D'Angelo)


Tra i lavori della montagna, il mestiere del carbonaio era quello che ne testimonia meglio la durezza e la complessità; l’abilità manuale giocava un ruolo essenziale. Era tramandato per tradizione di famiglia e si apprendeva sul campo. Un’arte fatta di sapienza, esperienza e di molta fatica, che richiede zelo e implica procedure oggi difficili da immaginare. Probabilmente la penuria di terra da coltivare contribuì a indirizzare verso lo sfruttamento del bosco per integrare il reddito familiare derivante dall’allevamento e da una agricoltura stentata.

Inoltre, il carbone prodotto da questi artisti del fuoco prima dell’arrivo del gas e dell’elettricità era necessario e richiesto anche nelle città. Legna per produrre reddito, legna per cucinare, legna per scaldarsi in inverno, legna per produrre carbone vegetale. Carbone che adesso viene usato solo nei ristoranti o per il barbecue ma che una volta, fino agli anni ‘70, serviva per riscaldare le case. Non tutti ne sono a conoscenza perché si tende a pensare al carbone estratto in miniera. Il carbone a legna esiste da quando esiste il fuoco; tracce di carbone si trovano in reperti antropologici risalenti all’età del rame, a un’epoca compresa tra il 3.300 e il 3.100 a.C.


(schema e funzionamento della carbonaia - da cronache picene)


Il Comune di Tornimparte, un agglomerato di 21 frazioni sparse su un territorio di 62 Kmq, distante poco più di una decina di chilometri da L’Aquila, è stata una delle aree più specializzate nell’arte dei carbonai per la presenza dei boschi e la povertà del territorio. La risorsa culturale è stata recentemente rivitalizzata da un progetto del responsabile regionale dell’Unione Nazionale Pro-Loco d’Italia (UNPLI), Domenico Fusari, e dai volontari del Servizio Civile Nazionale (SCN) attraverso la ricerca di microstorie locali con riferimenti bibliografici di cultori locali (Vincenzo Battista, Antonio Porto e Vincenzo Gianforte).


(Il carbone nei sacchi di iuta - foto Luciano D'Angelo)


Le zone di bosco destinate a legna erano quelle più impervie. I crinali scoscesi e la presenza di sottobosco non offrivano un facile accesso; l’unico mezzo era il mulo o il cavallo da soma. I carbonai partivano nei mesi di settembre e ottobre, in gruppi di 7-8 persone, che insieme ad altri formavano delle compagnie comandate dai capo-macchia per raggiungere località lontane dai centri abitati e spesso fuori regione, dal Lazio alla Calabria. Portavano con sé poche cose: maglie, calzettoni, un pezzo di lardo, qualche stila (un manico di legno), la roncola e l’indispensabile accetta che veniva custodita in un panno di lana per mantenerla al caldo. Se diventava troppo fredda, poteva spezzarsi all’inizio del taglio, creando non pochi problemi, e non sempre ce n’era una di ricambio. Inoltre veniva adattata alle caratteristiche fisiche del carbonaio e per abituarsi a un’accetta nuova ci voleva del tempo.


(La catasta fumante - foto Luciano D'Angelo)


I carbonai conoscevano i cicli della riproduzione ambientale e usavano un tipo di taglio che permetteva la riproduzione secondo la rotazione di conservazione. Non avevano un atteggiamento di rapina, utilizzavano solo le risorse necessarie lasciando alla natura il tempo utile a rigenerarsi. I carbonai stessi erano elementi del bosco, così almeno apparivano quando, durante la fase di sfornatura del carbone, diventavano neri di fuliggine. Per produrre il carbone usavano la tecnica della carbonaia. Si preparava uno spiazzo in piano riparato dal vento, possibilmente vicino a una sorgente d’acqua, e non troppo distante dalla zona da utilizzare, affinché il trasporto della legna, a spalla o a dorso di mulo, fosse ridotto al minimo. Al centro si collocavano i tronchi secchi più grandi intorno ai quali si addossava, in senso verticale e concentrico, la legna di spessore maggiore e poi via via quella più piccola, facendo assumere alla carbonaia un’inclinazione conica. La legna più sottile si posizionava all’esterno per chiudere gli interstizi tra i tronchi. Una volta raggiunta la circonferenza che il carbonaio aveva segnato sul terreno, la cupola era terminata.


(Il carbonaio vive immerso in un ambiente incontaminato - foto Luciano D'Angelo)


Per rivestire la carbonaia si tagliavano i rami degli alberi abbattuti, oppure fascine di ginestra, fino a formare uno zoccolo di notevole spessore, ricoperto da zolle di terra e fogliame di sottobosco, per chiudere tutte le aperture tra i tronchi di legna. Alla fine si ricopriva di uno strato di terra umida, priva di sassi, per impedire che entrasse una quantità eccessiva di ossigeno. Una volta terminata la costruzione della carbonaia, si rimuoveva il palo centrale creando un camino in cui inserire braci ardenti, con un’esca sufficiente a innescare la combustione della legna. Ad accensione avvenuta, il camino veniva chiuso con zolle di terra e riaperto solo per il “rabbocco”.

Il procedimento sfrutta una combustione imperfetta del legno, in condizioni di assenza di ossigenazione. La carbonaia veniva alimentata per 5 o 6 giorni con legna piccola per mantenere il fuoco all’interno e solo dopo un paio di giorni dall’accensione si praticavano dei fori ai lati del cono, le fumarole, per una regolare penetrazione dell’aria e della ventilazione. Il processo di carbonizzazione iniziava quando il colore del fumo che fuoriusciva dalle aperture laterali, all’inizio grigio-bianco, diventava azzurrognolo. L’accesso alla sommità della cupola avveniva con una scala di legno realizzata sul posto.


(Il fuoco attraverso la fessura - foto Luciano D'Angelo)


Per dividere il cono della carbonaia in settori verticali da cui rimuovere la terra, i carbonai utilizzavano degli zoccoli di legno costruiti appositamente per non bruciare le scarpe. Lo scopo era ridurre gradualmente la temperatura interna per poi scoprire definitivamente la carbonaia nei due giorni successivi ed estrarre il carbone. Nella “scarbonatura” si doveva accertare che il carbone fosse ben raffreddato, separando quello integro della carbonella dai tizzoni e dal polverino per poi inserirlo in sacchi di iuta (da 40 a 80 kg ciascuno). La resa del carbone dipendeva dal tipo di legna utilizzata (faggio, abete, larice, frassino, castagno, cerro, pino) e dalla stagionatura.

Una carbonaia poteva arrivare a contenere anche 700 quintali di legna. In ogni zona d’Italia ha un nome dialettale che la identifica; a Tornimparte si chiama “catozzo”. Oggi fare una carbonaia è una passione, non una necessità. Dal 1974 sono state ricostruite in occasione delle feste patronali del paese e le piazzole sono allestite a ridosso del centro. Una volta non era così, ci si trasferiva con tutta la famiglia su in montagna dove si viveva anche fino a otto mesi, isolati dal mondo. Vincenzo Gianforte è uno degli ultimi carbonai tornimpartesi. Il suo obiettivo è quello di non far scomparire questa attività, della cui memoria è depositario, e per questo ha fondato l’associazione Le Carbonaie. Nel 2001, sulle montagne di San Giovanni a Tornimparte, ha curato il progetto di ricerca dedicato alle antiche strutture, per il libro “L’oro del bosco”, con la documentazione fotografica di Luciano D’Angelo.

Il carbonaio è un uomo nero che non fa paura. Una figura che potrebbe essere inserita nelle favole; una sorta di Efesto, dio greco del fuoco, capace di dominare le fiamme. A occuparsene, nel 2010, ci fu anche il regista di un film premiato a Cannes, “Le Quattro Volte”, Michelangelo Frammartino, che evoca l’elemento fuoco e racconta quanta maestria ci voglia per costruire una carbonaia. Fra gli interpreti un maestro di questo lavoro, Artemio Vellone, uno degli ultimi carbonai di Villa San Bruno in Calabria.

.






ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI FOGLIEVIAGGI


© Tutti i diritti riservati




ritorna
Foglieviaggi è un blog aperto che viene aggiornato senza alcuna periodicità e non rappresenta una testata giornalistica. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001. Le immagini presenti sul sito www.foglieviaggi.cloud provengono da internet, da concessioni private o da utilizzo con licenza Creative Commons.
Le immagini possono essere eliminate se gli autori o i soggetti raffigurati sono contrari alla pubblicazione: inviare la richiesta tramite e-mail a postmaster@foglieviaggi.cloud.
© foglieviaggi ™ — tutti i diritti riservati «all rights reserved»